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Bianco è il colore del danno: la malattia narrata da una giornalista

La lucida narrazione della sclerosi multipla di Francesca Mannocchi

La cima del Gennargentu era bianca di sole. All’improvviso un velo nero oscurò lo splendore di quella visione. Inizia così la mia sclerosi multipla recidivante remittente. Quando ho letto il libro di Francesca Mannocchi ho sofferto quindi per lei e per me. “Bianco è il colore del danno”, recita il titolo. Fa riferimento all’”opera d’arte” del nostro male: macchie bianche, placche, che colorano il nostro cervello. E che ci rendono potenzialmente paralitici e neurologicamente assenti. Il problema è quel potenzialmente.

L’opera: Bianco è il colore del danno

Francesca Mannocchi è una giornalista di guerra. E questo è il secondo libro che pubblica con Einaudi. Si potrebbe pensare sia un’opera sulla sclerosi multipla, ma non lo è. Anzi, non è solo questo. È famiglia, è politica, la distanza e la vicinanza che creano le parole. E parte da una premonizione: a otto anni le venne l’idea che a 30 si sarebbe ammalata. Incubo puntualmente realizzatosi.

La (mia) lettura di Bianco è il colore del danno

Ho letto il libro durante i pasti, sull’iPad. Pronta a evidenziare di giallo ogni cosa nella quale mi sarei riconosciuta. Tante, troppe. Ogni tanto un boccone fermo nella gola, come di fronte alle “cose che temo di non poter fare più”. Ne elenco alcune in ordine sparso: “Sfogliare i libri. Toccare la sabbia. Guidare. Deglutire. Fare l’amore”. Sono solo alcune delle paure che Francesca Mannocchi scrive nel suo diario dell’ottobre 2017, oggi la pagina 56 di “Bianco è il colore del danno”. Quelle che hanno seguito le prime visite, le prime analisi, le prime risonanze magnetiche dopo una parestesia in un stanza d’albergo bianca a Palermo. Si trovava lì per una serie di interviste. Una mattina si è svegliata e non sentiva più la parte destra del suo corpo. Avrebbe preferito le fosse successo non in una stanza anonima, ma nei suoi soliti posti, quelli che lei definisce casa, come il motel Fareeq in Iraq o l’hotel Victoria di Tripoli, dove è andata spesso per i suoi reportage di guerra.

Una nascita: la sclerosi multipla

L’esordio della sua malattia è avvenuta dopo aver messo al mondo Pietro. La sclerosi multipla non ha una causa. Ma ci sono eventi che la possono risvegliare. Tra questi, la gravidanza. Nei casi più fortunati, dorme per sempre. Nel mio caso, forse, è stato il senso di insoddisfazione. Col suo pancione Francesca Mannocchi aveva già sentito il peso dello sguardo degli altri. Indagatore, pronto a puntare il dito e a dare consigli non richiesti su quel corpo e sul corpo che porta dentro. Lo stesso sguardo altrui è quello che l’autrice indaga una volta che si entra nella condizione, senza ritorno, di malato cronico: “è sempre lo sguardo degli altri che ci forma e ci deforma”, scrive.

Un male bianco

Una malattia senza causa e senza cura, con sintomatologia spesso invisibile agli occhi di chi guarda. Che ci costringe a una terapia a vita, che al contempo è speranza e problema, con effetti collaterali troppo dolorosi da spiegare. Il nostro presente è un continuo scavare nel passato alla ricerca di ragioni ed effetti, del perché sia capitato a noi. Indagheremo sui nostri errori. Cercheremo sempre una qualche colpa, in noi o negli altri. Dove è il punto di rottura. Lo faremo per spiegare qualcosa che nemmeno la medicina, per ora, riesce a spiegare. Lo faremo quando capiamo che “la scienza può essere lo spazio dell’incertezza”.

Il nostro presente è un continuo scavare nel passato alla ricerca di ragioni ed effetti, del perché sia capitato a noi. Indagheremo sui nostri errori. Cercheremo sempre una qualche colpa, in noi o negli altri. Dove è il punto di rottura. Lo faremo per spiegare qualcosa che nemmeno la medicina, per ora, riesce a spiegare. Lo faremo quando capiamo che “la scienza può essere lo spazio dell’incertezza”.

Non solo un libro sulla sclerosi multipla

È quello che fa Francesca Mannocchi in tante pagine di questo libro. Quelle dedicate a nonna Rita, al nonno dal cuore malato, ai suoi genitori. Al suo compagno e a Pietro. Alla Francesca bambina che non crede in Babbo Natale, alla Francesca del liceo che scopre nel miracoloso monologo di Molly Bloom (Ulisse, Joyce) che con la presenza del corpo si afferma la propria identità. Ma cosa succede quando quel corpo diventa un “traditore”? Non resta che vedersi interi. Un blocco unico che contiene, per scomodare Walt Whitman, la nostra vastità, le nostre moltitudini. E accettarsi, finalmente, per quel che si è. Francesca. Daniela. “Vedetemi vera”, recita pagina 198. Vedeteci vere, intere con la nostra sclerosi. Eliminate la pietà dal vostro sguardo.

Vivere nonostante il bianco, nonostante il danno

Vivere nella totale incertezza, sapere che domani le mie gambe potrebbero restare ferme per sempre o che nemmeno una parola possa più uscirmi velocemente dalla bocca, mi ha reso perfettamente vulnerabile, davanti a me stessa e davanti agli altri. Eppure “Bianco è il colore del danno”, nel suo essere così spietato, mi da una ragione esistenziale: il senso del perdono, verso me stessa e verso gli altri. Quello che Francesca trova quando abbandona la non malata, quello che non riesce a chiedere a Pietro. Il punto di arrivo dell’aver affrontato il senso della vergogna per poter nuotare felice con il figlio in un mare sereno nel quale non esistono malati e malattie. Solo esseri umani che parlano e giocano e amano. Come nella Venere di Botticelli la perfezione è una somma di imperfezioni. Per questo perdono e mi perdono.